Cercare la felicità all'americana: l'angoscia e la disintegrazione sociale. [Da "L'arte della vita" di Bauman alla "Guida Zen per non cercare la felicità" di Magid]

Navigando su alcuni sitacci americani, leggendo cos'hanno da dire i guru sul blogging, mi imbatto in un inquietante quadretto psico-sociale rispecchiato in Joe's Goals. Di per sé niente di male, può essere utile. La colpa è sempre della nostra mente: è lei che rende brutte o belle le cose.

Efficienza, dinamismo, obiettivi grandi per diventare grandi uomini. Oggi quest'ansia di affermazione è peggiorata perché siamo sempre più consumatori. Non c'è nemmeno l'autostima, l'orgoglio di esclamare: "ce l'ho fatta". Dobbiamo produrre, dobbiamo consumare. Punto.
Non funziona più nemmeno interpretandola da occidentali. 
Bauman in L'arte della vita, infatti, sostiene che l'atto del consumare (il momento dell'acquisto) richiede tempo. E allora il lato piacevole del consumo viene ridotto al minimo. Inoltre non gratifichiamo il nostro ego facendo una torta, ad esempio. Dobbiamo comprarla. Perché? Perché non c'è tempo. E perché dobbiamo consumare. E per consumare (denaro) a tal punto, occorre molto lavoro. Altro tempo che se ne va. E perdiamo il senso di gratificazione della nostra famiglia. La nostra solidità, la nostra sicurezza, si sgretola, di fronte alle relazioni "a basso impegno".

Consumare non ci rende felici. Opulenza non è sinonimo di felicità. Pure noi occidentali che abbiamo partorito questo mostro l'abbiamo capito. Eppure lo nutriamo.
Bauman si chiede "se la coercizione a cercare la felicità nella forma praticata nella nostra società di consumatori, renda felice chi vi è costretto".


Img da ilibridielisa.com


La frase di Bauman mi ha ricordato il titolo di un libro che ho letto qualche anno fa: Una guida zen per non cercare la felicità. Tutti abbiamo diritto a perseguire la felicità, ma non saremmo più felici se lasciassimo perdere? di Barry Magid, un maestro Zen americano. 

da ilgiardinodeilibri.com

E' un maestro buddhista, non può che trascendere lo stesso concetto di autostima: la felicità non è nemmeno nel nostro ego fatto di rappresentazioni, ma è qui e adesso, nella calma del nostro stesso respiro. Non va cercata neppure nella soddisfazione personale, nella famiglia, ma in noi stessi. Come? Non facendo niente. Non significa smettere di mangiare, lavorare o abbandonare casa e figli. Significa essere presenti, accettare quello che viene per essere appagati sempre, senza il peso dell'obiettivo, senza cercare le gratificazioni dall'esterno. Perché si invecchia, si muore, ci si ammala, perché le cose non vanno come vogliamo noi, molto spesso, e non ci si può fare niente. Non si può essere felici restando in balìa degli eventi. 
Quello che si può fare è non-fare, smettere di migliorarsi (lo dice spesso, Magid, nel testo) e accogliere la realtà così com'è, spegnendo i conflitti. Si può smettere di desiderare la felicità perché il desiderio è sofferenza e la sofferenza non è felicità. Semplice, no? E raggiungere la felicità che non va raggiunta, perché è qui, ora, nel miracolo di essere vivi.


Ora non voglio fare il (non-)sermone Zen.
Quello che voglio dire è che non ci siamo. 
E lo sanno tutti.

E tu? Vuoi ancora cercare la felicità come impone la nostra società di consumatori?


PRECISO che non voglio parlare in questa sede del consumo esperenziale. Ma che lo odio profondamente e senza alcuna cordialità :)



Paolo Ceccarini